Descrizione
IBN Editore
175 pp., 17 x 24 cm
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L’entusiasmo di un ragazzo casualmente coinvolto in una guerra decisa dall’Impero è l’energia che anima questo resoconto sull’aventura coloniale in Africa Orientale dal 1937 al 1941 vista attraverso gli occhi dei personaggi.
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Il fil rouge su cui si snoda questa valida e vitale opera prima è la narrazione di fatti appartenenti alla prima giovinezza dell’autore, tanto ce ‘Non avevamo neanche la bandiera” può definirsi in gran parte come un romanzo della memoria, personale e storica, estremamente rispettoso dell’autenticità del ricordo. La rivisitazione del passato, nella realtà come in letteratura, implicato in sé il rischio della mistificazione del vissuto, spesso alla ricerca di autoglorificazione o di facili assoluzioni, come accade per esempio con modalità eclatanti ne ‘la coscienza di Zeno’ di Italo Svevo. L’opera di Milioni, grazie ad un’intelligente autoironia, è immune da questo vizio e l’Aldo personaggio vive situazioni molto pesanti, rischiosissime e spesso eroiche con quello spirito picaresco ce è uno dei tratti distintivi di una sana gioventù.
La scelta stessa di a partire per l’Etiopia non è dettata da alcuna retorica ideologica o militaresca, né solamente dall’irrequietezza del carattere e dell’età, ma dalle necessità economiche della famiglia: “Questa sede comportava uno stipendio di 480 lire più l’indennità coloniale e l’indennità di disagiata residenza, per un totale di 1200 lire mensili più di quanto percepiva mio padre, poveretto, prossimo alla pensione con le famose mille lire al mese”.
L’autore, sin dall’esordio narrativo, identifica come tratto distintivo del protagonista i suoi diciannove anni che lo rendono costantemente “il più giovane” “già durante il viaggio… in ufficio, come allievo ufficiale e poi in prima linea coi battaglioni coloniali.” Ed “Il più giovane”, non a caso, è il titolo ce Milioni avrebbe amato dare alla sua opera, ce per alcuni aspetti rientra nel genere “Romanzo di formazione”. Il giovanissimo protagonista desta nel lettore un sentimento immediato di accoglienza e simpatia soprattutto per questo suo essere un eroe antieroe, testardo, un po’ indisciplinato e vittima di umanissimi disagi legati alle difficoltà del clima africano, come una terribile colite, fino al tifo petecchiale. Aldo personaggio si fa voler bene dal lettore, come dai commilitoni, per i suoi entusiasmi forti e autentici, come quello per gli spaghetti divorati a Bicenà, dopo una marcia di 40 Km., di cui molti a piedi. In questi brani il linguaggio dell’autore torna felicemente ad essere quello lieve ed entusiasta della giovinezza, ance grazie all’uso di espressioni esclamative, di accrescitivi e diminutivi: “Feci un cupolone nel mio piatto che sembrava la cupola di San Pietro dalla fame arretratissima ce avevo”. E l’immagine dell’Aldo “pieno di pulci” che, per alleggerire la fatica della lunga marcia, riesce a saltare in groppa ad un cavallo selvaggio ce egli chiama “quel cavallino”, ha la stessa poesia di tanti protagonisti bambini del nostro neorealismo.
Il coraggio ed un profondo senso del dovere sono le altre due note caratteristiche del protagonista. Il primo non assume mai i toni del velleitarismo o della gradasseria, ma direi che è insito nel giovane e ne sottolinea l’autenticità e la schiettezza, accompagnandosi ad una sana dose di pragmatismo. “A me, però, – scrive l’autore – non importava proprio niente di ribellioni e agguati. Ero sicuro ce, come avevamo vinto sempre avremmo vinto pure questa volta. Infatti, la mattina, chiamai gli ascari de plotone comando … e feci predisporre per terra i teli da segnalazione… e finalmente, verso le sette, sentii il rombo: cinque aeroplani si misero in direzione delle frecce che avevo predisposto e cominciarono a spezzonare e mitragliare quegli abissini”.
Il capitolo 20°, “Primavera del ’39 a Debra Uòrk”, sancisce un cambiamento di registro ce, da goliardico e scanzonato, si colora in maniera via via più significativa dei toni dell’epopea tragica. Esso sostituisce ance un’anticipazione emblematica del dramma finale, con la morte del tenente colonnello Coccini, di altri tre ufficiali e di un sottufficiale italiani, caduti in un tranello dei ribelli. A Significare lo shock subito da Aldo, inevitabile in una persona tanto giovane, la drammatica viene ripresa nel capitolo 33°, per dedicare, come l’autore scrive, “un particolare ricordo di stima e affetto ai protagonisti della vicenda”; la carneficina dei graduati italiani, però, è soprattutto un drammatico rito iniziatici e per questo una memoria stravolta e stravolgente con cui Aldo Milioni ha fatto i conti per tutta la vita.
L’Autore non esita, inoltra, in queste e altre pagine, a lanciare il suo “je accuse” contro le alte sfere politiche e militari italiane, colpevoli le prime di incongruenze e le seconde di “scollegata gestione coloniale”, “di imperdonabili leggerezze burocratiche” e finanche di “deresponsabilizzazione”. A ciò si giungono le frequenti annotazioni di Milioni a sottolineare la spaventosa mancanza di mezzi delle truppe italiane, costrette a fronteggiare i ribelli con armamenti dell’età garibaldina e a respingere i Gloster inglesi con i fucili degli Ascari o con una sola danneggiata mitragliatrice. Una coraggiosa e attenta ricostruzione storica, dunque, con grande rispetto per la verità.
Se nelle pregevoli note a fine di ogni piccolo capitolo emerge il desiderio dell’autore di fornire il maggior numero possibile di dettagliate informazioni a carattere etnografico e storico-miliare, ciò che avvince nel romanzo e ne costituisce il quid artistico è l’attenzione alla microstoria e ai suoi indissolubili intrecci con la macrostoria, alle ricadute pesanti ed estremamente sofferte di questa sulla vita di personaggi profondamente e dolorosamente umani. Di fronte alla realtà assurda e barbara della guerra, l’esorcismo del gioco e dell’entusiasmo giovanile non funziona più, si diventa repentinamente uomini a cui rimane la scelta, a cui né Aldo né tanti suoi compagni si sottraggono, dell’impegno e della resistenza estrema, di quella insomma ce il narratore protagonista chiama “tigna” e il lettore traduce immediatamente nella parola “eroismo”.
La battaglia finale viene combattuta da una compagnia di soldati laceri e affamati, molti dei quali richiamati per le diserzioni degli Ascari, “senza nemmeno una bandiera” (e a questo punto del racconto il titolo dell’opera risuona come una lamentazione biblica), praticamente inermi di fronte all’attacco inglese, vittime innocenti strangolate dalla marcia inesorabile della storia e in qualche modo vicine agli indimenticabili protagonisti de “La Storia” della Morante.
Al canto di morte e gloria rappresentato dalla battaglia dell’Abbaraghèi tende idealmente l’intero impianto narrativo, tanto che ad essa viene dedicato il capitolo più lungo del romanzo, queste pagine anno la velocità e l’immediatezza drammatica di una serie di fotogrammi e l’occhio che filma è quello del protagonista, cui spetta il compito di organizzare la difesa, a causa della spossatezza dei suoi superiori. Essendo già crollati gli altri capisaldi italiani, a difendere Gondar rimangono solo gli uomini di Aldo, malmessi e male armati, contro la schiacciante superiorità numerica e gli armamenti moderni degli Inglesi. “In quel momento cominciai a rendermi conto della brutta fine che stavamo per fare. Cominciai a vedere … morire i miei soldati … comunque loro, bravissimi, riuscirono resistere con me per tante ore. Però i Riflers me li ammazzavano uno a uno: con i fucili mitragliatori, me li ammazzavano”. Il possessivo ed il “me” epesegetico, ripetuto due volte in poche righe, esprimono tutto il senso di impotenza e la disperazione profonda per quelle morti ce nessun ideale basta a giustificare.
La caparbietà del coraggio si stigmatizza definitivamente nel rifiuto del protagonista ad ordinare la resa negli ultimi drammatici momenti della battaglia dell’Abbaraghèi, nonostante il capitano, ferito, gli ripeta più volte quest’ordine egli inglesi già lebaionette. Fino alla fine della storia il personaggio rimane quindi coerente con se stesso e la sua formazione di uomo trova la propria consacrazione nella volontà ferrea di continuare a resistere e nella rabbia necessaria per farlo.
Il romanzo si chiude con una ripresa dal titolo, “Però io non avevo neppure la bandiera”, a sancire definitivamente l’assenza ce diventa metafora dell’assurdo del reale. Costantemente assente anche il più piccolo indugio all’autocompiacimento, persino laddove l’autore ricorda brevemente che la leggenda di Gondar nacque spontanea, quasi senza il supporto della propaganda.
Con grande semplicità e modestia, A. Milioni dichiara a conclusione del suo lavoro di essere riuscito ad esorcizzare il ricordo angoscioso di Gondar solamente grazie alla frase riconoscente di due suoi ex soldati: “Il signor tenente Aldo, perla sua giovane età, poteva essere nostro figlio. È stato nostro padre”. La solidarietà, quindi, come valenza ontologica e come unico rimedio, leopardianamente inteso, alla sofferenza e alla morte.
Il linguaggio narrativo medio-alto ha il pregio dell’immediatezza e della vivacità, resa soventemente da espressioni gergali rientranti nel parlato delle truppe, come “pezza da piedi”, “gavettino”, “Ahò, a Miliò”, “siarmutta”, “sciarmuttina”, “spezzonare”.
Ci si augura che ‘Non avevamo neanche la bandiera’ arrivi ad un pubblico vasto e in particolare nelle scuole tra i giovani, oggi così bisognosi di ancorardi al passato e di un ideale orizzonte paradigmatico a cui tendere; e la bella gioventù di A. Milioni e dei suoi eroici compagni potrebbe offrirglielo.
Paola Camusi
Milioni A.